Appiccico di seguito il pezzo che ho scritto per il 30esimo numero di ScaricaBile,
la rivista satirica che ti uccide dentro.
POTA GHESBORO CIUMBIA
Viaggio sentimentale in Padania
L'entrata in Padania è soffice come una scoreggia umida.
Le strade sghembe, rimasugli di antiche vestigia imperiali, sono tortuose, si, ma sincere. Il territorio del nord Italia non è docile – in passato qui era tutta palude, in più aveva le meches – e si presta a vagheggiamenti celtici e nebbiosi; pensieri strani che ti fan sentire a Mordor e invece, pensa un po', è solo Quarto Oggiaro.
Il mio autista, un bresciano che mi dice “stai zitto e fai quello che faccio io”, è un tipo silenzioso. Il suo alito è atroce, Marlboro e pozzi neri fusi assieme. Minuscoli avvoltoi volteggiano frenetici attorno alle sua labbra.
Guida piano non rispettando gli stop e maledendo “i negri che attraversano la strada”, come se “la strada” fosse sua sorella minorenne e “i negri” dei tremors sieropositivi.
Ivan Biasuzzi (così si chiama il mio aggancio padano) bestemmia sovente e il risultato è che i diciotto crocefissi che pendolano dal suo retrovisore mi guardano atterriti e progettano un'intifada.
Sono le 7 e mezzo del mattino e da pochi minuti ci siamo lasciati alle spalle il centro-sud Italia )(governato dalla mafia (nulla di che, “è solo la sesta mafia mondiale”)) e, tra la piatta pianura, comincio a intravedere i primi mausolei.
Rito padano. “Non son proprio mausolei come li intendono gli altri,” mi spiega Ivan ruttando la peperonata della sera precedente e soffiandomene l'afrore in faccia, sorridendo morbosamente, “sono solo capannoni”. Non mi stupisce che in questa landa cagata male da Dio, dei prismi di metallo probabilmente cancerogeno, sistemati su della steppa senza anima e riempiti di lavoratori in nero, extracomunitari e persone sudatissime in genere, acquistino un'aura mistica. Se ci si guarda intorno, d'altronde, si scopre che non c'è nient'altro in cui sperare – se non si fa caso a quella teenager che mostra la vulva per un'Infinity Card. Ed è inutile confidare nell'orizzonte, il quale, superato, regala sorprese e cambiamenti. Nossignore, la Pianura Padana è come una crisi depressiva stirata per centinaia di chilometri e divisa in regioni. Qualsiasi ipotesi di collina è assente: tutto è uguale. Qui la fantasia la usano per farci il compost.
(Ieri un imprenditore veneto ha tanto di suicidarsi. Ma prima ha acceso l'ennesimo mutuo. Perché la sua famiglia gli stava sul cazzo.)
Folklore. Il viaggio in automobile si fa noioso, così sfoglio la Padania, l'organo ufficiale del Partito Unico Padano. Un quotidiano strano: al posto dei necrologi ha i genocidi.
Ma sono stanco: stanco di stare in macchina e straziato dal silenzio di Ivan. Così decido di ripescare dalla mia borsa il plico consegnatomi dalle autorità prima d'attraversare la frontiera. Il titolo è Manuale d'uso per chi entra in Padania, un tometto in carta riciclata e rilegato a calci in culo.
“Può esserti molto utile,” mi disse Duilio Guallivo, ambasciatore francese in Padania, “qui ogni due per tre ammazzano un giornalista perché si comporta male”.
Così, per passare il tempo, ne rileggo alcune parti. Mi colpisce l'Articolo 1 della Costituzione Padana: “Qui non si scherza, si lavora. Che se qualcuno vuol fare il mona, diocane, lo vadi a fare a casa sua. Noi non è che andiamo all'estero e ci ubriachiamo, ci droghiamo, andiamo a montare le puttane e facciamo i merde umane. E loro invece si, quindi mi pare pulito che è ora di finirla, madonnacicciona.”
Così, mentre mi figuro una Vergine Maria di duecento chili, la nostra Fiat Unno si ferma. Ivan mi guarda e mi comunica che siamo arrivati.
“Dove siamo, Ivan?” chiedo con lo stesso know-how di Donny del Grande Lebowsky. Lui sta un po' zitto, poi lentamente si volta verso me, mi sorride e (da bravo attore consumato (dagli effluvi di Marghera) quale è) esclama: “Sei in Padania, cazzoputtana.”
Una troiata e una parolaccia in appena 4 parole. Si, sono decisamente in Padania.
Senza nozioni precise, ci allontaniamo dal grigio parcheggio da dove la nostra Fiat Unno ci guarda fiera e ariana – sul cruscotto un santino di John Elkann ritratto mentre finge di sapere qualcosa . Il giovane padano sembra conoscere ciottolo per ciottolo la steppa ricca e produttiva che calpestiamo. Poi, fiero, si ferma. Entra in un bar. Ordina diciotto americani, caga, vomita, tocca il culo a sua cugina, s'addormenta e dopo sei ore ripartiamo.
“Avevo sete, non rompere il cazzo,” si giustifica.
El sior Livingston, i suppose. Voglio parlare con gli indigeni, sono qui per questo. Lo faccio presente a Ivan, disturbandolo mentre rimuove un caccola delle dimensione della Cosa dalla sua narice destra (quella sinistra se l'è fatta sigillare per far ridere gli amici al bar) ed è intento a spalmarla sulla sua cintura di pelle marrone – che ora presenta una sfumatura verde alquanto sospetta.
“Si, si ora ti ci porto, terün,” mi dice spazientito.
Non che io sia terrone, ma il solo fatto di essere foresto mi discrimina; non vi dico quanti cazzi potrebbe infilarmi nel culo il dichiararmi favorevole ai PACS, all'eutanasia o all'aerosol. Il popolo padano ha portato a livelli macro i principi selvaggi che governavano i villaggi su palafitte del Neolotico, con la differenza che qui la ricchezza è obbligatoria (se sei povero sei proprio maleducato e non dovresti vantartene) e Sky si prende piuttosto bene.
Siamo avvicinati da un vecchio con pipa che ci guarda come fossimo cammelli cingolati.
“Foresti?” ci chiede.
“Si,” rispondo.
“Anch'io,” dice Ivan “son di Bergamo”.
L'anziano lo fissa come fosse un alieno, si impaurisce e se ne va.
“I vecchi hanno paura di quelli di fuori,” mi spiega il mio giovane autista. “Siamo fortunati che non aveva un teaser.”
La chiaccherata. Gianni Bettin giace davanti a me come uno stegosauro sazio. S'è appena pappato le critiche di un cittadino che chiedeva perché al posto della sua casa era sorto un monumento al Walhalla. “Merda comunista vai via” gli ha detto il Gianni – e tanto è bastato perché il poveruomo venisse cacciato dal paese, inseguito dai villici con forconi, pantere e un trattore.
Bettin è il ras della Lega locale e ha l'espressione convinta di D'Annunzio con uno stronzo in bocca. Mi spiega la situazione politica, il famigerato “radicamento nel territorio” padano (gli faccio notare che anche le mine antiuomo sono radicate nel territorio e lui sghignazza cianciando di “braccia e gambe di negri che saltano per aria”).
Ciononostante mi sento sicuro di me stesso e pieno di voglia di lavorare, posso cominciare la mia indagine. Cerco così di introdurre Bettin nel per lui spigoloso Mondo della Logica, chiedendogli a cosa può portare la xenofobia che incolla i leghisti a se stessi.
“Be' la gente ha paura e ci chiede di bruciare i zingari, ostia! E se è il caso noi lo facciamo,” mi risponde.
Perché seguire sempre la pancia dell'elettorato? Non conosce il Paradosso della Democrazia di Platone? E se gli elettori votassero democraticamente per la tirannide?
“Be' se la gente vuole i paradossi noi gli diamo i paradossi. Se poi Platone ha successo vuol dire che è radicato anche lui...”
A cosa?
“Boh... A suo zio?”
Mi dica: davvero non vi rendete conto d'essere voi il vero Partito dell'Odio?
“Noi siam mica razzisti, eh! È che la gente non ne può più di vedere i negri in giro, a camminare, parlare e urlare. E noi allora, orcocan, gli diamo le botte, no?! E la gente poi è contenta.”
Io presumo che, qualora la Padania ottenesse l'indipendenza, in breve tempo voi ricomincereste a lagnarvi di altre cose, senza fine.
“Me dichi pure.”
Ad esempio: i lombardi non vorranno stare coi veneti e viceversa, l'Emilia sarà odiata in quanto comunista, la Toscana forse è padana e forse no...
“Ora ordino un bianco – scusa ma me lo chiede la gente.”
...E allora la Lombardia chiederà l'indipendenza dalla Padania stessa, il Veneto pure...
“Be' se la gente vuole essere indipendente, sa, i negri, i zingari son cose brutte che poi comunque il popolo c'ha detto di prenderci le banche, altrimenti noi mica lo facevamo, che mica è colpa nostra se la mafia ruba uccide e poi i pedofili che stuprano i bambini...”
Non le sembra un circolo vizioso questa pulsione secessionista?
“Vizioso a me non lo dice!”
Nel senso che il trend è potenzialmente infinito. La Padania si separa dall'Italia, le varie regioni si odiano e si dividono, poi le province chiederanno di stare da sole a loro volta...
“Eh be' certo, cazzo. Io non voglio mica stare coi vicentini, per esempio! Chei magnagati de merda...”
Esatto! Lo vede? Ma che ne è della solidarietà tra persone?
“Bah, c'avranno costruito sopra una banca!” (sghignazza)
Non pensa che finirete col dividervi paese per paese, frazione per frazione, quartiere per quartiere, condominio per condominio?
“Se così fosse io non ci sto, abito vicino ai Marangacci, ha presente? Io con quelli non ci sto!”
E sa che succederà alla fine di questa follia? Il caos totale. Ad esempio potremmo ritrovarci io e lei, in un monolocale, indipendenti dal resto del mondo per evitare i vicini di pianerottolo. E sono certo che anche in tal caso lei ci troverebbe dei problemi.
Gianni Bettin ascolta le mie parole e sorride sicuro di se. Estrae dalla giacca una pistola e la posa sul tavolo. Rutta e si fa serio, le sopracciglia gli calano come un sipario stanco. Guarda la pistola e mi dice: “In tal caso, se io e lei fossimo uno 'stato indipendente' e ci fossero dei problemi, glielo assicuro, quei problemi sarebbero esclusivamente suoi.”
***
Lo potete scaricare qui o sfogliarlo qui under: