sabato 23 ottobre 2010

Quella volta che Bruno rimase intrappolato nel plastico di Avetrana

Bruno entrò; tutto era così piccolo e anche lui si era misteriosamente rimpicciolito. Pensò ad una diavoleria sovietica, un esperimento di qualche terrorista atto a levare lui, il più noto giornalista del paese, dalla scena del delitto dell’anno. Brunò cammino per la stanza, si guardò attorno: ogni cosa sembrava essere stata fatta da un Dio certosino dalle mani lunghe e affusolate. C’era un tavolo sulla destra, ebano scuro come il petrolio, e sopra un cesto con delle mele.

“Ho fame, ne prenderò una” pensò Bruno. Bruno la assaggiò. Era finta: gli piacque particolarmente.

A vedere quella piccola casupola dall’interno, da un punto di vista altrettanto minuscolo, tutto sembrava più chiaro. Bruno capì che chi ci abitava non erano semplici pupazzi da far vivere a forza tra quelle mura bugiarde. “Erano davvero delle persone!” capì l’ometto, accarezzandosi la guancia destra, antica residenza di decine di nèi.

“Chissà che ne penserebbe Crepet di un ragionamento così bello” si domandò Bruno, ricordando l’amico di mille paraculate.

C’era un crocefisso sul muro e sotto quello una cassettiera orrenda colma di arnesi, tovaglie, bicchieri e altre cose. “Tutte le cose utili per la casa sono anche ottime armi”, riflesse l’uomo maneggiando un simpatico dispencer per stuzzicadenti a forma di drone. Sopra questa, poco più sotto del Cristo appeso, delle foto di famiglia. C’era pure anche la ragazza morta, quella che era stata uccisa. “Com’è che si chiamava? E poi chi era stato?” Avevano arrestato tutti: lo zio, la cugina, la madre, la nipote. La gente non sapeva più cosa pensare e chi odiare. Al bar sotto casa sua, Bruno aveva notato che la ragazza uccisa e gettata nel pozzo stava lentamente tramontando dietro l’orrizzonte degli argomenti cool, surclassata da il camorrista del GF 11 e da il sacerdote licantropo che non solo si incula bambini ma li trasforma in licantropi generando un esercito di mostri usi a inculare e trasformare in mostri gli inculati.

“Dio mio, che confusione,” concluse Bruno, “qui bisogna fare qualcosa”.

“È vero, Bruno.”

Bruno sentì il proprio sangue ghiacciarsi dentro il cuore. Chi aveva parlato?

“No, impossibile che cii sia qualcuno” cercò di convincersi. Era solo, in quella casa minuscola dentro lo studio televisivo del suo programma. Si era ritrovato misteriosamente minuscolo e imprigionato, certo, ma una cosa era sicura: era solo. Almeno fino a quel momento, il momento in cui una voce maestosa ruppe quel silenzio minuscolo. Bruno si voltò. “Dev’essere l’assassino!” dedusse, “gli assassini tornano sempre sulla scena del delitto”.

Voltatosi, lo vide. “CAZZO!” gridò. “Ma allora..”, il giornalista indietreggiava balbettando, “…allora sei stato tu!”

La misteriosa figura sorrise, e mosse leggermente il braccio destro mostrando un piccolo pugnale — il manico di pessima qualità intarsiato di perle finte.

Brunò tentò di urlare, di chiamare aiuto o almeno di ricordarsi in quale tasca aveva lasciato il cellulare per chiamare la polizia, ma la curiosità era troppa.

“Sarò l’unico a sapere se l’assassino è anche uno stupratore! Questo si sarebbe uno scoop!”.

E morì con uno strano sorriso da share al duemila per cento.

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